di Ersilio Mattioni e Michele Sasso
da L’Espresso del 03 febbraio 2016
Una rivoluzione tra le ciminiere dei 69 impianti italiani. Una rivoluzione che fa la gioia del settore. Anche i cementifici possono bruciare i rifiuti. Dove nascono i sacchi indispensabili al ciclo del cemento si usano i forni per altri scopi.
La decisione è stata prima scritta dal Governo Monti e poi confermata e potenziata dal premier Renzi quando nell’estate del 2014 spiegava la sua idea di futuro e ripresa economica con il decreto Sblocca Italia:«Non ho paura di sognare un’Italia che, se cambia, diven-ta “smart”.
Vogliamo liberare interventi fermi da 40 anni».
Dietro allo storytelling del rottamatore c’è un’accele-rata per bruciare di più ma con meno regole: fino al 2013 la quota era minima, ma per evitare la costruzione di nuovi impianti di incenerimento ecco la soluzione low-cost e veloce. Con pesanti ricadute sull’aria, l’ambiente e la salute pubblica.
Come dimostra un’analisi di Arpa, l’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente del Piemonte, pubblicata poche settimane fa. Sono stati studiati gli effetti per gli abitanti che vivono vicino ad uno storico inceneritore, quello di Vercelli.
Lo studio mostra un aumento della mortalità generale del 20 per cento nei residenti e un aumento di patologie invalidanti come il tumore del colon retto del 400 per cento, e ancora tumore del polmone (più 180 cento), cardiopatia ischemica-infarto (più 90 per cento), enfisema e bronchite cronica (più 50 per cento).
In questo caso sotto osservazione è finito un inceneritore, concepito allo scopo di bruciare rifiuti, dotato di filtri e sistemi di abbattimento degli inquinanti, ma quali risultati si avrebbero se lo studio fosse applicato a un cementificio, costruito con un’altra mission e trasformato in un forno per la distruzione dell’immondizia?
A portare questi dubbi in Parlamento ci ha pensato Alberto Zolezzi, medico pneumologo ed eletto alla Camera per il Movimento cinque stelle: «Assistiamo ad una deregulation totale: un cementificio che vuole bruciare non chiede nessun permesso speciale, basta l’ok del Comune e si inizia. Con effetti devastanti, le emissioni di diossine e metalli pesanti sono quindici volte più alte rispetto agli impianti tradizionali. Il motivo è chiaro: sono stati progettati e costruiti 50 anni fa con tutt’altro scopo».
Se in Europa la tendenza è smantellare e potenziare la raccolta differenziata, il nostro Paese ha deciso da fare eccezione. A febbraio 2014 con il governo Letta agli sgoccioli viene approvato il cosiddetto decreto Clini (dal nome dell’ex ministro dell’ambiente finito a processo con l’accusa di corruzione ) che consente di svolgere, pur utilizzando un combustile ritenuto meno inquinante, lo stesso sporco lavoro degli inceneritori: bruciare i rifiuti.
Sette mesi dopo entra in vigore lo “Sblocca Italia”, 13 provvedimenti governativi per far ripartire edilizia e grandi opere con lo scopo di spingere la ripresa economica.
Nel decreto si parla anche di immondizia: addio al vecchio federalismo ambientale (ogni regione deve essere auto-sufficiente, dotandosi degli impianti necessari e aumentando la differenziata) in nome di una ritrovata “solidarietà” nazionale, che consente di portare i rifiuti della Campania in Trentino trasformandoli da problema a risorsa.
Lo scenario cambia in maniera radicale. E la preoccupazione di maggiori emissioni sale soprattutto al Nord. Nella mappa dei 69 centri di produzione, un terzo sono concentrati in Pianura Padana: 6 in Veneto, 5 in Lombarda, 5 in Piemonte, 4 in Emilia Romagna, 3 in Friuli Venezia Giulia, uno in Trentino Alto Adige. Impianti che vanno ad aggiungersi agli inceneritori. Anche in questo caso sono le regioni settentrionali a detenere il record assoluto con 25 siti contro i cinque del centro-sud con la possibilità di salire di altri dodici nei prossimi anni.
LA TERRA DEI FUOCHI IN LOMBARDIA
Tra le province di Milano, Lecco e Bergamo, c’è un triangolo delle emissioni dove si trovano cinque impianti per ridurre in cenere i rifiuti e produrre materia prima per l’edilizia nel raggio di appena trenta chilometri. Una concentrazione senza eguali, che fa di quest’area, dove vivono oltre due milioni di persone, una delle zone più inquinate in Europa.
Una terra dei fuochi in salsa lombarda dove è nato un comitato (Rete Rifiuti Zero Lombardia, La Nostra Aria e Aria Pulita) che chiede di bloccare l'autorizzazione di Italcementi per salire da 30.000 alle future 110.000 tonnellate all’anno per il polo di Calusco D’Adda, comune a metà strada tra Monza e Bergamo ( qui la replica di Italcementi ).
Dibattiti pubblici, gruppi di studio con l'associazione “Medici per l'ambiente” e 10 mila firme raccolte e consegnate alla Regione Lombardia e alla Provincia di Bergamo non hanno però avuto alcun risultato.
«Bruceranno anche fanghi di depurazione, pneumatici e derivati da imballaggi, oltre ai rifiuti già classificati» spiega allarmato il Comitato zero rifiuti.
Se la società civile si è organizzata, tutti i comuni hanno invece accettato – con le eccezioni di Paderno d'Adda (Lecco) e Solza (Bergamo) – la proposta di Italcementi: compensazioni ambientali sotto forma di opere pubbliche in cambio del via libera all'aumento della quantità da bruciare. Con una postilla: le amministrazioni locali «rinunciano irrevocabilmente ed incondizionatamente ad ogni pretesa, richiesta, ragione o azione».
In ballo dieci nuove “casette dell'acqua” e soprattutto la promessa di un nuovo scalo per togliere i tir dalle intasate strade provinciali e portare i convogli dei rifiuti grazie alla ferrovia. Dopo tre anni però le rotaie sono sparite dal progetto e ritornate nei cassetti.
«Sono decisamente mutate le condizioni di riferimento», spiega Italcementi a “l’Espresso”: «È stato detto con trasparenza che l’impegno per la realizzazione dello scalo non è più commisurato ai benefici attesi».
Niente scalo, rimane solo la promessa di ridurre ancora di più le emissioni.
Ma intanto i sindaci che hanno firmato l’accordo faticano a spiegare ai loro cittadini che arriveranno altri disagi. E delle rotaie promesse nessun sindaco vuole parlare. È solo il presidente del Parco Adda Nord, Agostino Agostinelli, che non retrocede: «La ferrovia deve essere fatta, perché sarebbe il simbolo di un accordo rispettato».
DISASTRO AMBIENTALE NEL CORTILE DI CASA
Non è solo un problema lombardo. In Puglia la Procura non ha dubbi: a Barletta (capoluogo della provincia di Barletta-Andria-Trani) si sono spinti oltre e la cementeria locale ha smaltito rifiuti speciali oltre i limiti imposti. Nessuna remora e rispetto per chi vive a duecento metri dalle ciminiere.
Mesi di indagini con diciotto indagati che dovranno rispondere di reati di cooperazione in disastro ambientale colposo, falso e abuso d'ufficio. Al centro del ciclone i rappresentanti legali della cementeria “Buzzi Unicem” di Casale Monferrato in provincia di Alessandria a cui fa capo la filiale di Barletta, di “Dalena Ecologia” di Putignano, “Trasmar” di Barletta e “Corgom” di Corato più sei componenti del comitato provinciale che hanno rilasciato la Valutazione d'impatto ambientale (l’autorizzazione necessaria che certifica il rispetto delle norme) e due dirigenti del settore Ambiente della Regione Puglia e cinque tecnici dell'Arpa, l’agenzia regionale incaricata dei controlli.
Secondo quanto è emerso dalle indagini della Guardia di finanza, la cementeria avrebbe ottenuto i permessi «sul falso presupposto del possesso di un'autorizzazione a incenerire 20mila tonnellate l'anno di rifiuti pericolosi costituiti da oli minerali» si legge nell’ordinanza.
Non trattandosi di un impianto di incenerimento inizialmente creato ad hoc, ma appunto di una cementeria, ha poi ottenuto una nuova autorizzazione, sostituendo la dicitura di rifiuto “pericoloso” con quella di “speciale”, con una potenzialità che saliva da 140 a 178 tonnellate al giorno. Proprio questa nuova attività di incenerimento dei rifiuti avrebbe provocato la «diffusione areo-dispersa di sostanze oltre i limiti di legge esponendo la popolazione della città di Barletta al rischio di inalazione di fattori inquinanti dannosi alla salute».